Era così il dopoguerra. Non si parlava dei problemi del lavoro giovanile, dell’occupazione, della fame o della guerra, mai.
I problemi erano tutti intorno, erano semplicemente la quotidianità. La mattina, alla fermata dell'autobus, il più vecchio avrà avuto vent'anni ed era normale. Come era normale arrivare tutti insieme correndo verso la fermata perché entro le otto il biglietto del bus costava 5 lire, dopo il doppio e arrivare per primi alla tabella era la nostra gara da adolescenti. Non ambivamo ad altro.
Avevamo tutti calzoni troppo grandi, direttamente proporzionali ai portapranzi colmi di pasta che portavamo nelle buste. Un profumo su quegli autobus la mattina...
Si andava da ragazzini verso la vita adulta ma non ci si chiedeva neanche quale fosse l'alternativa. Forse c’era la consapevolezza che lavorare in realtà fosse già la nostra grande alternativa. Era il 1959 e l'aria del boom si mescolava ancora a quella della povertà residua sporcandosi.
Non sapevamo ancora che di lì a poco saremmo passati ad essere da "Poveri ma belli" a "poveri ma con la televisione".
Non avevo purtroppo la maturità per comprenderlo ma in quella precoce fase della mia vita stavo per conoscere un mondo in via d'estinzione, dove le botteghe erano ancora botteghe nel senso storico del termine: luoghi dove si va per imparare. Ormai nessuno lo ricorda più ma erano luoghi di scambio di conoscenze e saperi antichi, di segreti tramandati e custoditi da generazioni forse per secoli.
La maturità scolastica la conseguii invece con regolare diploma da marmista presso la scuola d’arte e mestieri. Fu un percorso parallelo a quello lavorativo e ripensare oggi a quanto fossero diverse le due esperienze mi lascia incredulo. La scuola era asettica, inodore e formale, mentre nei laboratori si respirava ancora un'atmosfera antica, fatta di ritualità ormai scomparse. La mattina, anche in estate, "il ragazzetto di bottega" accendeva le stufe: quella del laboratorio sulla quale si preparava come prima cosa la misturina - l'antico mastice tradizionale dei marmisti - poi quella dello spogliatoio, dove si mettevano in caldo i porta-pranzo che regolarmente prima delle 12 erano già tutti vuoti.
Il rumore del motore dei macchinari - come i macchinari d’altronde - era molto limitato ma il ticchettio era continuo. Era il nostro sottofondo. La nostra radio. Il più giovane preparava battendo sulla martellina tutti i tasselli per i mosaici - e quanti ne ho preparati! - l'incisore realizzava le epigrafi, il mastro bucava manualmente il granito battendo con un mazzuolo su di un trapano a violino. Un concerto senza fine a volte intervallato da qualche glu glu. Eh già. Perchè non si lavorava mai a gola secca. Ogni mastro occupava, diremmo oggi, una postazione, un banco, ed ogni banco, era provvisto di fiasco di vino.
Uno dei primi compiti di ogni nuovo arrivato era proprio quello di far in modo che queste postazioni non fossero mai sguarnite dell’occorrente… Detto occorrente, una sorta di benzina nei laboratori dell’epoca, era di facile reperibilità: nel quartiere c’erano infatti più vini ed oli che artigiani ma i nostri mastri preferivano l’Osteria der Galletto su Piazzale del Verano, dove Rita istruiva i nuovi arrivati circa il tipo di combustibile adatto ad ogni mastro: rosso, bianco, romanella e così via.
Ad ugole calde, era tutto uno sferragliare di ferri scintillanti ed inevitabilmente già a metà giornata ci si trovava a correre lungo lo sterrato della Salita della Ranocchia con in mano un bel mazzetto di scalpelli e punte da arrotare. Verso la cima, un comignolo sempre fumante indicava come un’insegna la bottega di Pippo, il "mastro chiavaro", per tutti noi più di un mastro, un vero e proprio mago!
Nella sua bottega grigia e fumosa ad attendere i visitatori fuoco ed un calderone per temperare l'acciaio. Per rendere caratteristica l’atmosfera, mancavano solo alambicchi e scope danzanti! Conserviamo in laboratorio qualche suo utensile forgiato a mano che ancora conserva la tempera originale.
Gli scultori del nostro settore facevano la fila per i ferri dell’ultimo mastro forgiatore e noi, a nostra volta, facevamo la fila per ammirare gli ultimi grandi scultori. Lo stile del maestro Sciancalepore fece senz’altro scuola sull’ultima leva di scultori e mi capitava di ricordarlo spesso con l'amico Livio Scatolini ed ora mi ritrovo a ricordare anche Livio...
Quanti amici e quante conoscenze andate perdute con loro.
Figli di una generazione silenziosa, rincorrevano tutti lo stesso ideale: avvicinare l’artigianato all’arte; nel tentativo di farli toccare, abbassavano lo sguardo e lavoravano. E lavoravano. Senza fronzoli.
Oggi vedo i caschetti a norma per la 626 e sorridendo ripenso alle pieghe del cappello di carta che per prima cosa mi insegnò a preparare Mastro Primo. Semplicemente perché non si stava a bottega senza cappello di giornale. Tutto qui.
Mastro Primo! Quanta polvere sul suo cappello! Insieme a mastro Gino, fu forse l’ultimo dei mastri, quando la parola mastro era ancora la contrazione di "maestro".
E sapevate che stuccare può essere un'arte? Avreste dovuto vedere Fernando! Lui era capo cucchiara. Con il “cucchiarotto” riusciva a modellare qualsiasi superficie. Fernando, Fernando.
Ricordo di quando a bottega arrivó il primo trapano elettrico. Secondo lui non ne avevamo bisogno. , diceva. La loro grandezza era in questo: riuscire in opere a volte ciclopiche con mezzi ad oggi risibili.
E verrebbe da ridere anche a voi immaginando ragazzini spingere carretti di legno carichi di marmi per i vialetti del Verano. Eppure erano questi i nostri mezzi ma nessuno avvertiva la stretta necessità di un cambiamento imminente in quelli che erano i nostri metodi di lavorazione. Erano quelli da sempre. Li avevamo trovati ed erano funzionali. Quando le prime Ape della Piaggio cominciarono a prendere il posto dei nostri carretti da fioraio, fu esclusivamente per l’apertura del “nuovo” Cimitero di Prima Porta.
La nostra era una forma di arretratezza solamente apparente: il lavoro ed il tempo erano semplicemente correlati in modo diverso. Non esisteva il concetto di lavorare in fretta. Non credo di aver mai sentito in quegli anni la parola ansia.
Vivevamo la pressione della consegna esclusivamente durante il periodo della ricorrenza dei defunti, quando avevamo una strana tradizione per allentare la tensione: lavorare tra i viali del Cimitero ad oltranza, anche dopo il tramonto; non avevamo torce elettriche ed era bellissimo entrare con i nostri carretti, tutti in fila, illuminati solamente dalla luce delle nostre candele.
Di giorno, invece lo stress lavorativo era alleviato dalle partite a calcio consumate tra noi ragazzi all’ora di pranzo tra i banchi di fiori e le poche auto in Piazzale del Verano. A differenza di oggi il nostro era un ambiente giovane con un continuo ricambio generazionale.
Sembra incredibile che tutto questo sia così vicino nel tempo ma ricordandolo appaia così lontano: i carri, le candele i trapani a mano.
Tutto ciò sta a dimostrare che la tradizione della scuola marmoraria romana si è mantenuta pressoché intatta con le sue tecniche e tradizioni almeno fino a circa 50 anni fa.
La graduale trasformazione del nostro settore e dei suoi ritmi è secondo me imputabile all’introduzione dei prodotti chimici nell’industria del marmo. Dal 1960 in poi solventi, smalti e soprattutto mastici s'insinuarono tra la diffidenza degli anziani, conquistarono la fiducia delle nuove leve e finirono per prendere definitivamente il sopravvento sugli equivalenti naturali spodestandoli. Sparirono così la misturina e le vernici preparate ancora mescolando terre colorate e resine; anche la profumata gemma di pino lasciò spazio al diffusissimo ed abusato acetone. Tutto ciò stravolse inevitabilmente ritmi e modi di lavorazione consolidati. Fu una rivoluzione annunciata. Per avere un'idea della portata del cambiamento basti pensare che il cemento, prima di essere considerato modellabile, ha bisogno di 24, 48 ore di asciugatura - il suo tempo di stagionatura è fissato a 28 gg -, i mastici sono bicomponenti e se ben dosati permettono un fissaggio pressoché immediato. In un certo senso quei giorni furono l'inizio della fine del nostro artigianato classico.
Oggi è importante che l'artigianato coniughi tradizione e tecnologia ma è fondamentale che non dimentichi mai le tradizioni che l'hanno reso grande, che l'hanno reso prossimo all'arte.
Gianni Grammaroli
12 02 2017