A breve intorno alla storica stazione del Verano, - poco più di un binario morto in una radura e che a furia di spostamenti troverà la sua definitiva sistemazione poco dentro le mura, prendendo in seguito il nome di Termini- sorse un ampio borgo di artigiani marmisti che sfruttando l’enorme facilitazione dell’infaticabile ferrovia, fecero del desolato Campo Santo di Roma, il monumentale Cimitero Verano di oggi.
Grandi artisti e grandi artigiani dalla moderna visione imprenditoriale fecero loro ampi spazi di verde e sottraendo terreno alle immense vigne Cantoni e Quatrini, edificarono le loro botteghe con annesse abitazioni o addirittura palazzi signorili, intorno ai quali la campagna circostante a poco a poco cedette il posto all’edilizia popolare che nel periodo Umbertino ebbe il suo picco di operosità.
Ecco quindi alloggiati “gomito a gomito” gli operai impiegati nell’edilizia e nel settore cimiteriale ed i primi rappresentanti della media borghesia nelle loro abitazioni private.
Grandi marmi e grandi marmisti: Biondi, Ricci, Frioli, Calizza, Rossi…
Dei Rossi si ricorda l’impegno nell’edilizia monumentale quale i grandi ministeri e soprattutto quell’opera colossale consistente nel ricovero e la messa a punto degli enormi blocchi in botticino che provenendo già lavorati dalla sapiente manovalanza bresciana andarono a comporre quella montagna di calcare bianco che oggi conosciamo con il nome di Altare Della Patria.
Importanti nomi dell’architettura quali Koch e Sacconi varcarono il grande cancello che si apriva ad inizio secolo davanti alla campagna che faceva da quinta all’odierna via dei Reti, arteria spartiacque tra la zona artigiana dei marmisti e la zona popolare abitativa della cosiddetta parte alta. Un binario che asserviva al trasporto dei blocchi all’interno del cantiere medesimo, sottolineava con severe linee d’acciaio questa demarcazione netta che ancora oggi spacca in due la mattiniera S. Lorenzo dei marmisti e la nottambula S. Lorenzo dei locali.
Ancora oggi la nostra soglia si apre in via dei Reti come all’ora. Straordinarie opere, noti architetti e grandi gestioni. Sotto i nostri capannoni, alla guida dei quali dal 1906 si sono alternate le famiglie Rossi, Furioli e Grammaroli, abbiamo visto transitare piccoli e grandi tasselli che hanno fatto di Roma la capitale che conosciamo. Palazzi del potere, chiese, edifici storici ancora oggi come allora ci occupiamo degli interventi cimiteriali e artistici per la nostra città e non solo.
Con l’edilizia monumentale e quel restauro d’arte che nel 2010 ci ha portato ad essere premiati come artigiani dell’anno, e nel 2012 come maestri dell’economia, cerchiamo di mantenere viva quella tradizione artigiana che dentro le nostre anime sopravive come in un’oasi da oltre cento anni.
Augusto Proietti Bernardini, classe 1859, tutto cominciò da lui. Era un uomo minuto, un uomo qualunque dalle umilissime origini popolari. Figlio di genitori anticlericali imprigionati e morti da reclusi nelle carceri nuove, crebbe la sua vita da orfano, insieme alla nonna ed alla sorella. Oggi diremmo un figlio sfortunato dei suoi tempi.
Nel 1890 dalla stradone di San Giovanni, in pieno quartiere Esquilino, per ristrettezze economiche, si trasferì nel più popolare quartiere di San Lorenzo con la moglie e la numerosa prole.
Di professione facocchio, non ebbe difficoltà ad inserirsi nella realtà artigiana del quartiere, impiantò la propria bottega in Via dei Latini e lavorando per qualche anno su carrozze e carretti, ignorò che la svolta era appena dietro l’angolo.
L’ultimo decennio dell’800 vide il primo grande tentativo di risanamento urbano e sociale del quartiere, un progetto pilota che influenzò il più ampio e ambizioso piano di bonifica intrapreso dall’ Ing Edoardo Talamo qualche anno più tardi.
Tali operazioni miravano ad un riassetto urbano, puntando in modo sottile ad un riassetto morale, cambiamento che lentamente avvenne e lasciò negli abitanti del quartiere una coscienza diversa del loro peso sociale all’interno della vita cittadina. Aumentò l’alfabetizzazione, calò la disoccupazione, diminuì la mortalità infantile e si ridusse il numero di occupanti medi per vano ad abitazione.
In questo clima di entusiasmo e fermento, Augusto, come molti coetanei, si improvvisò piccolo imprenditore e fiutando il grande business che alimentava gran parte delle officine della San Lorenzo bassa, fece il suo piccolo grande salto: divenne fioraio.
C’è da dire che la trasformazione di Roma da grande borgo a Roma capitale, aveva portato una nuova classe di ricchi, formata da costruttori, politici, uomini di spettacolo, ansiosi di avere ricche residenze cittadine e, perché no, cimiteriali.
Il fermento edilizio della città umbertina, si trasferì quindi anche presso “l’arberi pizzuti” tanto cari ai vecchi romani ed assai meno tranquilli e romantici di qualche lustro prima.
La cappella gentilizia prese il posto della più modesta tomba di famiglia ed i viali adorni di cipressi cominciarono a rivestirsi di fiori variopinti in una lotta incessante all’ostentazione ed allo sfarzo.
Erano anni bui e bastava poco: un vecchio carretto e tanta forza nelle gambe per far su e giù tutto il giorno lungo la nuova Via Tiburtina. A giudicar dal fatto che di lì a poco avrebbe avviato anche un banco fisso sotto i portici di piazza Vittorio, il commercio non dovette andar male al nostro Augusto, tuttavia sarà l’arrivo della figlia Enrichetta, ex allieva di Maria Montessori, a dar un taglio imprenditoriale al lascito paterno.
Arrivò il ‘900, insieme ad esso il matrimonio con Edmondo Grammaroli ed il fiorire dell’attività di famiglia: in pochi anni i banchi di fiori e di oggettistica sacra divennero tre, entrammo così a pieno titolo nel settore che tutt’ora contraddistingue per molti il nostro marchio e la nostra famiglia.
Leggendario il suo fiuto per gli affari. Si ricorda l’operazione commerciale pianificata con la Neri in previsione dell’alta affluenza di pellegrini in visita alla Città Santa per il Giubileo del 1950: Si commercializzarono in quell’anno sui banchi di famiglia fantastiche bottiglie sigillate e perfettamente vuote, con tanto di etichetta recitante “Aria di Roma”.
In vecchiaia non resisteva dal sorridere quando qualcuno commentava qualcosa con il detto romano : “D’aria nun se campa” e lei replicava sorniona: “Ma ne sei proprio, proprio sicuro?”
Dalla grande crisi del dopoguerra che condusse alla necessità di inventiva per sopperire alla carenza stessa dell’offerta e della materia prima, Alvaro Grammaroli, uno dei figli, approfondì l’impegno in uno dei settori marginali di quella che stava divenendo una vera e propria impresa di famiglia: il settore lapideo.
Con la passione per il restauro ed un’esperienza da lucidatore di mobili, si propose nel settore in modo alternativo per operazioni di ripristino attente e curate nel rispetto di una ricerca filologica ante litteram. Il suo aiutante sul campo era il figlio, il piccolo Gianni Grammaroli.
Il boom economico vedrà il prematuro ritiro di Alvaro dal lavoro a causa dell’aggravarsi di un già compromesso quadro clinico ereditato da una lunga prigionia di guerra e la crescita come artigiano marmista del giovane Gianni, che di lì a breve, verrà affiancato dal fratello Mauro di qualche anno più giovane.
Trascorreranno serenamente tutti gli anni ’60 che li vedranno impegnati nel carpire i segreti di quei colleghi più anziani dei quali non disdegneranno mai di circondarsi. Gli anni successivi vedranno i frutti migliori della carriera di imprenditori dei fratelli Grammaroli: nei tardi anni ’70 verrà assorbita l’antica ditta Ricci, mentre metteranno a punto negli anni ‘80 uno dei frutti migliori della loro carriera: l’acquisizione della ditta Furioli con annesso stabilimento di produzione.
Ancora oggi, proseguendo nella tradizione, paghiamo un debito di riconoscenza a queste ottime intuizioni.
2013, stessa gestione, stesso stabilimento, stesso entusiasmo e dopo oltre un secolo dall’inizio della nostra avventura, con un lavoro minuzioso di scavo e di ricerca storica, cerchiamo di mantenere vive le tradizioni di famiglia e del nostro settore tutto.
Intorno a noi le serrande si abbassano in un incessante sferragliare di lamiere arrese al tempo che passa. Noi no. Lottiamo la ruggine che blocca i lucchetti. Delle nostre polveri di silice, facciamo lenti per vedere oltre, per capire che spesso la salvezza di un incerto futuro, risiede in un passato dalle solide tradizioni.
Impegnati in associazioni di tutela che salvaguardino il nostro delicato patrimonio culturale dalla dispersione e dall’estinzione, cerchiamo di riscoprire il senso antico di quel termine prezioso e abusato che nella sua essenzialità rimane per molti spiazzante, misterioso e commovente: bottega.
Nella bottega si alternano maestranze dalle più disparate conoscenze tecniche, veri custodi di arti antiche dai nomi strani e misteriosi, che fanno scuola alle più giovani maestranze che li circondano, nella speranza che la sapienza di un intero settore si tramandi e si rinnovi, continuando a garantire quel miracolo unico per dimensione e portata, che si chiama scuola artigiana romana.
I nostri maestri marmorari hanno lavorato alle dipendenze di papi ed imperatori, facendo di Roma il capolavoro eterno che tutto il mondo ci invidia, ebbene noi inseguiamo il sogno di contribuire con la nostra costanza a far sì che tutto questo non vada perduto.
Siamo certi che il made in Rome che per secoli ha attratto i viaggiatori del “grand tour”, se ben esposto nelle nostre vetrine possa essere quel monumento in più ormai assente in molte altre capitali europee.