I fratelli Rossi: Costruttori di Roma

Durante quella che viene generalmente chiamata belle epoque, Roma visse una delle sue stagioni più floride.
La Grande Guerra non era esplosa, il potere totalitario ed accentratore del Papa era stato pesantemente compromesso dall’Unità ed un benessere diffuso si respirava grazie ai grandi flussi economici portati dalla trasformazione da città giardino in capitale d’Italia.

Abile traghettatore di una grande Roma ancora in fasce, fu senza dubbio un sindaco la cui memoria rimase per tanti lustri cara ai romani: Ernesto Nathan. Egli fu tra i primi ad intuire che la vecchia città aveva bisogno di essere rappresentata sì, da grandi opere degne di una capitale, ma anche da servizi e di infrastrutture.

Durante il suo mandato vide infatti la luce il piano regolatore che nel 1909 regolarizzò definitivamente l’uso e la tassazione dei terreni fuori porta.

Dal 1907 al 1913, anni di inizio e termine del suo mandato, si occupò di migliorare molti aspetti di una capitale in divenire, lavorando a braccetto con i grandi architetti del suo tempo. Insieme alle piccole grandi opere come la “Casa dei bambini” di Maria Montessori, videro la luce linee ferro-tramviarie, nuove arterie dalla concezione moderna e quartieri fuori porta concepiti con una inedita visione degli spazi e della condivisione. Il motore di questa grande trasformazione urbanistica fu la categoria degli artigiani, coinvolta in blocco nell’immensa macchina messa in movimento dall’amministrazione capitolina.

I quartieri ubicati sulle vie dei grandi traffici commerciali, furono quelli in cui le piccole industrie e l’artigianato, fiorirono maggiormente; alcune zone videro cambiare la propria connotazione in funzione del gran fermento intorno ai cantieri disseminati dentro e fuori le mura.
L’approssimarsi della commemorazione dei cinquant’anni dell’Unità d’Italia, aumentò questa febbre, tutt’altro che fuori controllo, la quale vide alternarsi tutte le maestranze presenti in città, concorrendo al fine comune del bello come ideale per la comunità.

I quartieri ubicati sulle vie dei grandi traffici commerciali, furono quelli in cui le piccole industrie e l’artigianato, fiorirono maggiormente; alcune zone videro cambiare la propria connotazione in funzione del gran fermento intorno ai cantieri disseminati dentro e fuori le mura.
L’approssimarsi della commemorazione dei cinquant’anni dell’Unità d’Italia, aumentò questa febbre, tutt’altro che fuori controllo, la quale vide alternarsi tutte le maestranze presenti in città, concorrendo al fine comune del bello come ideale per la comunità.
Le ultime corporazioni ancora operanti prestarono i loro migliori maestri e le loro manovalanze per terminare le opere pubbliche incompiute, come l’Altare della Patria o il Palazzo di Giustizia ma ci furono anche quegli imprenditori che coraggiosamente,

remando contro corrente, decisero di operare in proprio, contribuendo involontariamente alla nascita della moderna imprenditoria, libera dal vincolo associazionistico e corporativo tanto caro ad artisti ed artigiani dal Rinascimento fino a tutto il XIX secolo. Uno di questi impavidi pionieri fu Cosimo Rossi, già appartenente ad una famiglia di costruttori e scalpellini; egli intuì infatti che l’ampio terreno a vigna di sua proprietà nei pressi della ferrovia Roma Tivoli in San Lorenzo, poteva fruttare molto di più con il minimo dell’investimento. Convertì dapprima la coltivazione in un grande piazzale per lo stoccaggio ad uso di marmisti e costruttori, richiese licenza per una bottega di scalpellino e successivamente, osando oltremodo, stipulò un contratto per il sub appalto dei lavori di completamento del Vittoriano.

Dopo averlo cinto da mura, dotò il suo appezzamento di macchine e capannoni per la lavorazione dei grandi blocchi di botticino che, grazie ad una apposita rotaia, potevano giungere direttamente al suo cantiere d’avanguardia. E d’avanguardia fu considerato ancora per molto se lo si vide ancora collaborare con l’amministrazione Nathan  per i lavori di completamento del Palazzo di Giustizia. Purtroppo non furono molte altre le opere che Cosimo vide completate all’interno del suo stabilimento. Come si trattasse di un accordo preso col destino, il mandato terreno del vecchio Rossi, terminò poco dopo quello del sindaco tanto caro ai romani: si spense a Roma il 26 marzo del 1915, lasciando in eredità un avvenire in parte ancora da scrivere.

La rotta era certo già designata ma occorsero alcuni anni di maturazione a Roberto e Cesare Rossi per definire quello che sarebbe stato il futuro dell’impresa.
Dopo un incerto periodo votato all’edilizia, i due fratelli definiscono la loro strategia: nel 1930 arricchiscono il laboratorio di un nuovo grande capannone per la lavorazione dei blocchi, di uffici e di aree coperte per la tornitura.

Grazie a questo assetto e ad un organico di professionisti del settore ai quali furono affidati mezzi d’avanguardia, l’impresa partecipò alle più prestigiose gare d’appalto proposte durante il ventennio fascista per i grandi cantieri aperti per le opere di rinnovamento urbano.

In quegli anni la concorrenza di settore non era poi molta e tra appalti e sub appalti, l’impresa Fratelli Rossi, si trovò, letteralmente ad edificare la Nuova Roma ipotizzata da Mussolini con l’ausilio delle collaborazioni dei preziosi Piacentini, Libera, Brasini, ai quali spettava l’arduo compito di conciliare la megalomania del regime con la praticità di una città da razionalizzare e da vivere. Non a caso, razionalità e razionalismo diverranno sinonimi di un’architettura mai troppo lodata che passò, pietra dopo pietra all’interno di quei capannoni che i due fratelli Rossi, con tanta lungimiranza, vollero proiettare verso il futuro. Tra gli appalti diretti tra il Governatorato di Roma e l’impresa, ricordiamo l’opera ciclopica della risistemazione di tutti i marmi di Piazza San Pietro e della sua pavimentazione dopo la demolizione dei Borghi.

Gli interventi di modifica su piazza dell’Esedra, che videro il completamento della Fontana delle Naiadi.

Come l’artigianato ci insegna, l’economia interna dell’azienda si resse per molti anni su opere di minor pregio artistico ma grande fattura: la fornitura dei cigli stradali per il Deposito Generale Dell’Urbe del Governatorato ed il fatto che in buona parte siano ancora sotto i nostri piedi lo testimonia.

Le macchine continuarono ad essere in funzione ininterrottamente anche durante il periodo bellico.

Non conobbero soste fino al 19 luglio 1943. Quel giorno un gran frastuono. Poi scese il silenzio.

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